A PROPOSITO DI ROTHKO

Articolo pubblicato sulla rivista online Imprinting n°2 febbraio 2018

Parlando di recente al telefono con un amico, il discorso ha incrociato il nome di un artista, Mark Rothko (Dvinsk, 1903 – New York, 1970). Si tratta certamente di un autore di importanza enorme, ma poco conosciuto ai molti e non solo presso i non “addetti ai lavori”. Chi ha letto qualcosa a proposito dell’evoluzione della pittura nel secondo dopoguerra, ha sicuramente sentito parlare del cosiddetto “espressionismo astratto” (1), riferendo dunque la sua opera ad una corrente della pittura americana che, insieme alle altre esperienze non-figurative di quello stesso periodo, annovera presenze importanti nel panorama artistico del nuovo continente. Faccio riferimento a Willem De Kooning, Arshile Gorky, Mark Tobey, Jackson Pollock, eccetera, eccetera. Ma non è mio intento parlare qui di storia dell’arte moderna, anche perché non mi compete. Vi è invece un altro motivo: è invece di questo che intendo raccontare. Ma perché il mio amico mi parlava di Rohtko? Ebbene, a proposito di una rara intervista all’artista che aveva ascoltato in una trasmissione televisiva, nella quale Rohtko diceva di essere stato colpito e ispirato dallo scalone del vestibolo della biblioteca Mediceo-Laurenziana, eseguita da Ammannati su progetto di Michelangelo nella seconda metà del Cinquecento, simbolo dell’architettura manierista.
Rothko è un autore molto complesso e “scomodo”, questo è il motivo per il quale si preferisce evitarlo. Personalmente ho dei seri dubbi sul fatto che possa essere affrontato dalla cosiddetta critica d’arte. Questo è vero per tutta l’arte non-figurativa del Novecento e Rothko, anche se più vicino a noi, non fa eccezione.
Per comprendere un poco alla volta questa sorprendente confessione dell’artista russo-americano, esorto il lettore a far mente locale sulle parole usate da Argan in un suo noto studio. «La sala – egli spiega, riferendosi al vestibolo della biblioteca Laurenziana – è uno spazio lungo e stretto, tra pareti bianche su cui le lesene e le cornici di pietra scura formano un solido telaio, che inquadra le finestre: più che un limite, la barriera tra lo spazio esterno, naturale, e lo spazio interno, dello studio e della meditazione». Suggerisco intanto di soffermarsi sulle parole “limite”, “spazio esterno” e “spazio interno”. «Il motivo dominante – continua Argan – è […] la forza trattenuta: il raccordo tra il vestibolo e la sala è infatti l‘organismo plastico della gradinata, che irrompe nel ricetto come una colata di lava […] (2). Bene, a questo punto mettiamo momentaneamente da parte queste acute osservazioni e leggiamo ciò che lo stesso Argan dirà, in un suo successivo lavoro (3), della pittura di Rothko: « rimane lo spazio – egli dirà – senza persone né cose: uno spazio non teorico ma empirico – Argan a questo punto è chiaro nel ribadire che nella cultura artistica non-figurativa, il tema dominante è quello dello spazio. Infatti, quando la rappresentazione analogica della realtà lascia il posto alla verifica della pura sintassi grafica attraverso l’analisi dei cosiddetti rapporti di configurazione (3), le figure astratte, linee e colori, ricreano, anziché riprodurre, spazi e movimenti reali sulla superficie pittorica. A volte, come nel caso eclatante di Mondrian, lo spazio è teorico, ed è ciò cui allude Argan. Altre volte è empirico, come nel caso di Rothko. Ma cosa significa?
Chi ha avuto l’esaltante esperienza di vedere dal vivo una sua tela, può sicuramente dirci qualcosa del genere: «mi è sembrato che mi venisse giù sulla testa». Diciamo intanto che le tele sono di grandi dimensioni e sono coperte di pittura stratificata in velature. L’effetto che si percepisce è quello di una superficie colorata che emana luce (anziché assorbirla) sotto forma di un apparente vapore. La superficie bidimensionale perde la fisicità della tela dipinta, si dissolve e avanza verso lo spettatore. Il colore assume un valore spaziale perché “avanza” o “retrocede” rispetto al punto di vista dell’osservatore. Ma a questo punto torniamo alle parole di Argan quando parla di «un certo grado di profondità o di trasparenza, e là dov’era un piano rigido e impenetrabile c’è un velario che lascia passare la luce o, addirittura, l’emana attraverso il colore […] – più avanti Argan conclude – un quadro di Rothko non è una superficie, è un ambiente (4). Forse a questo punto possiamo tornare alla biblioteca Laurenziana, a quella scalinata, a quel “limite” sapientemente infranto, a quella spazialità. Ma tutto ciò non è ancora sufficiente per comprendere la pittura di Rothko. Il lettore deve sapere che la profondità spaziale del colore dipende da due fattori: il contrasto di chiarezza fra figura e fondo, la qualità dei margini di una figura. In entrambi i casi stiamo parlando del cosiddetto gradiente marginale. Facciamo un esempio (5):

«Il quadrato (a) manifesta margini più nitidi rispetto al  quadrato (b). Questa peculiarità gli attribuisce una maggiore densità o gradiente cromatico. A parità di colore, i due quadrati (a) e (b) possiedono per questo una diversa qualità spaziale.»

 

«Il quadrato (a) risulta più chiaro del quadrato (b), rispetto allo sfondo sul quale si trovano. Il colore giallo saturo del quadrato (a) risulta più luminoso del quadrato (b) di colore giallo ocra,  manifestando  un maggiore contrasto rispetto allo sfondo, stagliandosi nettamente da esso, “avanzando” verso di noi.»

 

«Le figure  (b), (b’) e (b”), uguali fra loro per dimensione, forma e collocazione spaziale, manifestano distanze fenomeniche fra loro diverse. Nel primo caso il colore nero denota margini nettamente definiti rispetto allo sfondo bianco (A) e la “distanza percepita” risulta chiara e prossimale. Nel secondo caso la stessa forma quadrata ha margini meno definiti perché il contrasto cromatico rispetto al fondo è minore. Questo contribuisce ad interpretare la figura (b’) “più distante” da noi, a parità di condizioni,  rispetto alla figura (b). Nel terzo caso, il quadrato b” ha lo stesso contrasto cromatico della figura (b) ma presenta margini sfumati che contribuiscono ad “allontanare” percettivamente la figura.»

 

E’ facile intuire che la “vicinanza” fenomenica di un colore rispetto ad uno sfondo dipende dalla qualità formale dei margini, vale a dire dal contrasto più o meno netto (chiarezza o luminosità), più o meno sfumato. In entrambi i casi, verrebbe a modificarsi quella qualità o consistenza cromatica denominata gradiente cromatico.

Se consideriamo i colori pigmento nelle tinte primarie e secondarie sature e proviamo a considerare esclusivamente la qualità del contrasto (al di là che si tratti di un rosso un giallo o un verde) rispetto al contesto (il fondo su cui si trovano), sarà possibile individuare una differenza nel rapporto del gradiente marginale, vale a dire il gradino che separa le due superfici contigue. lo stesso Arnheim ha precisato che «a proposito dei colori, non sorprende scoprire che un rosso saturo accresce la qualità di figura più di un blu saturo; il che corrisponde alla generale tendenza del rosso ad avanzare e del blu a indietreggiare» (6).

Gli esempi riportati dimostrano che un medesimo colore può apparire spazialmente diverso, più “vicino” o più “lontano”, simulando cioè una distanza fenomenica differente rispetto all’osservatore (7).

L’effetto spaziale del colore è oltremodo evidente nei dipinti astratti di Mark Rothko, evocando attraverso espedienti tecnici della pittura, le mutazioni tra le cosiddette modalità di apparenza del colore (8). E’ esattamente questo il passo definitivo per comprendere la pittura di Rothko.

Spero di aver soddisfatto la curiosità del mio amico che ho lasciato al telefono con un dubbio. Lo ringrazio anche per avermi offerto la possibilità di parlare di un artista, Mark Rothko, che “sento” moltissimo, grazie anche ai numerosi scambi di opinioni avute, riguardo la tesi sopra esposta, con Adele Plotkin, di nazionalità russo-americana (guarda caso) anche lei.

Mark Rothko, Orange-red-yellow, 1961

Note

  1. Giulio Carlo Argan, L’arte moderna 1770 – 1970, Sansoni Firenze, 1970.
  2. Giulio Carlo Argan, Storia dell’arte italiana, vol.3, Sansoni Firenze, 1978.
  3. Si pensi alle esperienze di Klee, Kandinsky, Moholy-Nagy e tutti gli altri artisti che lavoravano presso il Bauhaus, e i contemporanei studi condotti dagli psicologi berlinesi della Gestalt.
  4. Giulio Carlo Argan, cit., 1970.
  5. Gli esempi utilizzati e le didascalie, oltre alle note 7 e 8, sono riportate nel libro di Clemente Francavilla, Vision & Visual Design, Hoepli, Milano, 2017.
  6. Rudolf Arnheim, Art and Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye, 1954, 1974 Regents of the University of California; trad. It. Arte e Percezione Visiva, Feltrinelli, Milano 1962, 2000.
  7. «Hue is a sensory initiator of the experience of space. In the visual field bright hues arrest the eye, localizing as they isolate themselves from their surroundings. The aggressiveness or visual insistence of red is a spatial phenomenon, as is the radiating effect of a yellow, or the recessive quality of a light, desaturated blue» (Lois Swirnoff, Dimensional Color, Birkhauser Boston Inc., 1989).
  8. Questa importante distinzione fu specificata dallo psicologo della percezione David Katz. «La classificazione dei modi di apparenza proposta da Katz è nelle sue grandi linee valida tutt’ora […]. La distinzione fondamentale è quella tra colore di superficie, colore filmare e colore volume. Il carattere di superficie è quello che comunemente presenta la maggior parte degli oggetti della nostra esperienza di ogni giorno. Il colore appare come costituente la superficie degli oggetti […]. Il colore nel modo di apparenza filmare, non possiede, come il primo, una localizzazione ben definita nella terza dimensione, ha un carattere meno sostanziale, è meno denso, più soffice, spugnoso, vellutato, vaporoso […]. Tipici colori filmari sono […] il colore del cielo sereno, la nebbia […]. Il colore di volume riempie fenomenicamente una porzione di spazio tridimensionale. E’ tipicamente il colore di un liquido, oppure di un blocco limpido di ghiaccio, di cristallo o di plexiglas […]. E’ rappresentata da un certo grado di trasparenza» (Gaetano Kanizsa, Grammatica del vedere, Il Mulino, Bologna 1980).

Lois Swirnoff, cit. Kurt Koffka, 1988

«Transposition does not distrupt the aggregate. Musically, a change of key does not destroy the melody (…)».